Mario Vargas Llosa è stato uno dei più grandi scrittori latinoamericani della seconda metà del Novecento, insieme al colombiano Gabriel García Márquez, alla cilena Isabel Allende, al messicano Octavio Paz, all’argentino Jorge Luis Borges. Con alcuni di essi ha coltivato rapporti di amicizia o di reciproca stima. Con García Márquez finì a pugni (fisici, non metaforici), probabilmente non solo per divergenze politiche, ma per qualche eccesso di complimenti verso il genere femminile.
Ha vissuto forse più fuori che dentro il suo Perù, trascorrendo molti anni in Francia e in Spagna. La Francia gli avrebbe tributato l’onore dell’appartenenza all’Académie Française, la Spagna gli avrebbe concesso la cittadinanza.
Ha scritto degli autentici capolavori, che gli hanno valso nel 2010 il Premio Nobel per la letteratura, “per la sua cartografia delle strutture del potere e le sue immagini incisive della resistenza, della rivolta e della sconfitta dell’individuo”.
In gioventù s’infatuò del marxismo, convinto che con questa ideologia l’America Latina avrebbe riscattato la sua lunga storia di ingiustizie e disuguaglianze. Poi la realtà lo assalì, come è toccato in sorte a molti intellettuali del Novecento. La rivoluzione cubana di Fidel Castro abbandonò la sua aurea romantica e abbracciò l’Unione Sovietica; i dissidenti dell’Europa orientale fecero giungere la loro voce al di là della cortina di ferro; nel 1968 i carri armati di Mosca posero fine al sogno della Primavera di Praga.
Ebbene, Mario Vargas Llosa abbandonò il giovanile marxismo e abbracciò la matura liberaldemocrazia, i cui principali pensatori (Raymond Aron, Jean François Revel, Isaiah Berlin, Karl Popper) contribuirono a plasmare la sua nuova coscienza liberale.
Mario Vargas Llosa è morto a Lima il 13 aprile 2025.