Fa un certo effetto guardare il film Civil War (2024) del regista inglese Alex Garland mentre sui nostri cellulari e sui computer scorrono in questi giorni le immagini reali della Guardia Nazionale schierata a Los Angeles su ordine del Presidente degli Stati Uniti. Ancor più allorché avvistiamo anche centinaia di marines tra le strade della città californiana, manco fossero a Kabul o a Baghdad qualche anno fa.

Dopo le parole sprezzanti d’odio udite nelle settimane scorse, l’ostentazione delle deportazioni in catene di immigrati illegali viste di recente, e l’incitamento all’uso catartico della forza bruta, cosa sta succedendo nel ventre profondo degli Stati Uniti? L’esercizio legittimo della forza da parte dell’autorità dello Stato, fondamento di ogni entità statuale, è sempre e comunque legittimo, nonché opportuno? E cosa succede se invece di gestire l’ordine pubblico, altro fondamento basilare del potere dello Stato, si finisce per aizzare le persone inducendo una protesta a trasformarsi in rivolta?

Torniamo al film. Alex Garland gira una pellicola su una (nuova) guerra civile americana ambientata in un futuro indefinito, ma visto ormai che la realtà supera la fantasia, qualche brivido lo fa scorrere lungo la schiena.

Le forze occidentali della California e del Texas combattono contro le forze armate del Governo federale, in mano ad un Presidente autoritario. Non si analizzano le cause, ci si limita a descrivere gli effetti, con un incalzante susseguirsi di vicende, scontri, atrocità. E nessuna chiara presa di posizione politica.

I protagonisti del film sono giornalisti, interpretati da Kirsten Dunst (“Lee”), Cailee Spaeny (“Jessie”), Wagner Moura (“Joel”) e Stephen McKinley Henderson (“Sammy”). Non tutto è apprezzabile: la rincorsa a documentare ogni efferatezza non è detto che significhi sempre oggettività e realismo. La fotografia è impressionante.

Inesorabile e spettacolare finale nella città di Washington. D’altra parte, molte insurrezioni e guerre civili finiscono per prendere d’assalto i luoghi del potere centrale dello Stato.

Nella recente realtà americana c’è già stato un assalto a Washington: fu il 6 gennaio 2021, al Congresso degli Stati Uniti, sacro tempio della democrazia, allorché chi aveva perso le elezioni non voleva perdere il potere. Fini bene, anche grazie allo straordinario senso di responsabilità dell’allora Vice Presidente repubblicano Mike Pence, a cui il 5 maggio scorso è stato meritatamente consegnato il John F. Kennedy Profile in Courage Award per essersi rifiutato di avallare le false affermazioni secondo cui le elezioni del 2020 sarebbero state truccate.

Vorremmo che il film di Garland rimanesse un’opera di fantasia, e non l’anticipazione di un documentario.

La corrosione quotidiana dei principi di convivenza civile e democratica, e il continuo utilizzo politico di parole cariche d’odio, possono portare lontano. Anche alla Civil War, ci ricorda Alex Garland.