Vilhelm Hammershøi, nato e morto a Copenaghen, è ritenuto il massimo esponente della pittura danese a cavallo tra il XIX e il XX secolo. A lui e ad altri pittori del tempo (soprattutto francesi, belgi e italiani) è stata dedicata la mostra “Hammershøi e i pittori del silenzio tra il Nord Europa e l’Italia” organizzata a Palazzo Roverella a Rovigo. Una mostra attraente, che segue altre interessanti esposizioni proposte nel recente passato e dedicate alla pittura e alla fotografia, come quelle su Henri Cartier-Bresson, Toulouse-Lautrec, Tina Modotti, Renoir, Robert Capa, Kandinskij, Robert Doisneau.

La poetica del silenzio, si è detto. Dipingere il silenzio intorno e dentro di noi.

Non c’è un amico, negli interni domestici dipinti da Hammershøi. Regna il silenzio, ma non trasmette né riposo né accoglienza. Quei colori sul grigio e sul bruno stendono una patina di freddezza, di vuoto. Tutto molto ordinato, ma anche tutto molto desolato. Ci si sente attratti e al tempo stesso molto a disagio. Non manca nulla delle comodità borghesi, compresi dei confortevoli divani, ma tutto rimane distante, freddo. Si respira più inquietudine che una serena tranquillità domestica.

Rare sono le presenze umane in Strandgade 30 e in Strandgade 25, le due abitazioni di Copenaghen dove Hammershøi visse e dipinse i suoi interni. La stessa moglie Ida è ritratta da sola mentre legge, da sola mentre pulisce, da sola di spalle mentre sta seduta su una sedia. Sempre sola. E quando in un quadro (“Doppio ritratto dell’artista e della moglie visti attraverso uno specchio”) sono presenti entrambi, Vilhelm e Ida, si danno le spalle, mostrando una incomunicabilità irrimediabile, una distanza incolmabile.

Le cose non cambiano nelle rappresentazioni degli esterni. In “Veduta del Palazzo di Christiansborg. Tardo autunno” non c’è un solo abitante di Copenaghen che venga dipinto sulla tela, solo architetture, palazzi, tetti, finestre, tutto immerso in una luce grigia un po’ nebbiosa e un po’ irreale. A questo proposito appare molto felice l’inclusione nel percorso della mostra di alcuni quadri dipinti da altri autori europei dello stesso periodo, delle vere e proprie “città morte” tra cui spiccano quelli riferiti a Bruges, Anversa e Venezia.

Nonostante l’assenza di evidenti legami tra di loro, e la contrarietà al loro accostamento da parte di alcuni critici dell’arte, nella pittura dell’americano Edward Hopper sembrano ritrovarsi alcune atmosfere di Vilhelm Hammershøi, la stessa solitudine e inquietudine della vita quotidiana.

Una curiosità riguarda i rapporti del pittore danese con l’Italia e la sua arte. Nel nostro Paese è venuto tre volte, e a dire il vero non sembra che la culla dell’arte lo abbia particolarmente segnato: nella sua produzione artistica esiste un solo quadro riferito all’Italia, in particolare l’interno della chiesa di Santo Stefano Rotondo al Celio, a Roma, peraltro poco nota agli stessi romani. Ebbene, durante il suo terzo soggiorno in Italia venne arrestato insieme alla moglie a Firenze dalla solerte polizia del Regno perché trovato in possesso di banconote false. Dopo quattro giorni di detenzione e l’accertamento che lui stesso era stato vittima del raggiro di un cambiamonete disonesto, venne scarcerato e se ne tornò via talmente scioccato che in Italia non ci sarebbe tornato mai più.