A Nikos Kazantzakis, scrittore greco del Novecento autore tra le altre pubblicazioni di Zorba il greco e dello scandaloso L’ultima tentazione di Cristo, nella seconda metà degli anni Trenta venne commissionato da un giornale greco un giro nella penisola del Peloponneso, “l’acropoli ancestrale di tutta la Grecia”, e le ue osservazioni ed esperienze hanno dato vita al libro La mia Grecia.
Kazantzakis viaggiò, osservò, immaginò e scrisse. Viaggiò per il Peloponneso, da Corinto alla fortezza franca di Chlemutsi, dalla città medioevale di Glarentza alle rovine di Olimpia, da Karìtena a Megalopoli, a Sparta, a Mistrà, dalla rocca di Monemvasià alla rocca di Micene.
Osservò anche, osservò molto. A Monemvasià “mi avvio sul sentiero. Vecchie casette basse, calzolai, fruttivendoli, un barbiere. Due o tre vecchi siedono sulle soglie, un asinello passa carico di stoppie. I cortiletti sono lavati di fresco…”. A Tripoli ritrova “di nuovo le facce dei greci di oggi, che sprizzano astuzie, sospetto e avidità”, come del resto ad Argo: “I greci di oggi. Musi accigliati, guance scavate, occhi sgranati. Ti guardano come se fossi un ariete da comprare al mercato. Ti frugano con lo sguardo, esaminano scarpe, abiti, cappello”.
Immaginò, Nikos Kazantzakis. A Sparta risente il profumo e il corpo di Elena, causa della decennale guerra di Troia. A Mistrà rivede Costantino Paleologo ritto in piedi mentre viene incoronato imperatore (l’ultimo) di Bisanzio, ma anche Giorgio Gemisto Pletone, appassionato filosofo bizantino che nell’era dell’Umanesimo e del Rinascimento ispirò il recupero della filosofia di Platone e la nascita in Occidente di accademie neoplatoniche. A Monemvasià immaginò Guglielmo Villehardouin, il cui casato resse nel XIII secolo il principato di Morea. E a Micene, “il covo degli Atridi”, non potevano mancare Agamennone e Clitemnestra.
E infine scrisse il libro, guardando alla Grecia al tempo del suo viaggio e alla Grecia dei tempi andati. Sa essere spietato, Kazantzakis: “Attraversi città e villaggi, parli con migliaia di persone, e il tuo cuore rischia di soffocare per l’indignazione e la vergogna. Questi bipedi senza ali sono la mia stirpe? A questo si è ridotto il nostro sangue? Trafficoni, sciocchi, maliziosi, invidiosi, ladri”. Scrisse della natura e del paesaggio greco: “Mezzogiorno. La luce cade perpendicolare, è questa l’ora più greca. Quella perfettamente classica. Poi il crepuscolo porterà ombre romantiche che avvolgeranno la pura e severa nudità della terra greca in ricami di chiaroscuri, e andranno così a spezzarsi le linee nitide, piene di certezze. Questo sole a picco è il vero e grande Greco antico”.
Kazantzakis ci fa riflettere sulla caducità umana e sulla vanità delle nostre ansie. Contemplando la pianura di Sparta, rileva come la terra sia impastata di sangue umano. “Che cosa si è salvato da questo inghiottitoio delle umane generazioni?” si chiede “A che pro lo stillicidio di guerre e leggi? … Nulla più rimane di quei meravigliosi giovani atleti, cosparsi di oli, perduti come la massa degli invalidi rifiutati”.
La storia è un tritacarne che dissolve le nostre ambizioni. Forse sta proprio qua il pensiero dello scrittore greco mentre vede scorrere nel suo viaggio nel Peloponneso le antiche gesta degli uomini che così tanto hanno contribuito alla civiltà europea e occidentale.